Comincia con un ritratto. «A Miglionico, in provincia di Matera, l’ultimo censimento ha trovato 2.573 abitanti. Non ce n’erano molti di più alla fine del 1949, quando qui nacque Vincenzo Consoli. Era l’Italia dei primi anni del Secondo dopoguerra, contraddistinta da miseria e distruzione pressoché ovunque. il Sud, come sempre in Italia, era una priorità, ma le soluzioni non si trovavano neppure allora».

L’affresco sul piccolo paesino che ha dato i natali all’ex manager di Veneto Banca apre il capitolo dedicato alla popolare montebellunese di Stefano Righi, giornalista economico veneto, che ha dato alle stampe «Il grande imbroglio» (Guerini e associati editore, 160 pagine, 12,50 euro) sul caos del mondo del credito. Un’accurata ricostruzione sugli ultimi dodici mesi che hanno cambiato la mappa del capitalismo bancario veneto. Con i terremoti alla Popolare di Vicenza e alla Veneto Banca – definita “La fabbrica dei schei” – che hanno portato a voltare pagina alle resistibili ascese dei banchieri-manager travolti dagli scandali e dalle inchieste giudiziarie. Per Righi, che ha seguito l’evoluzione delle due popolari venete, il capitolo riservato a Veneto Banca è in qualche modo paradigma del modello di «grandeur» inseguito dalla precedente gestione. Righi ricostruisce l’inizio della carriera di Consoli, il ribaltone del 1997 che portò Flavio Trinca alla presidenza e ne svela alcuni retroscena. «Un giorno del 1989 – racconta Stefano Righi – è proprio il direttore generale della Banca Popolare di Vicenza, Luciano Gentilini, che lo contatta e, informalmente, gli chiede la disponibilità a lasciare il Credito Italiano. No, non per andare alla Vicenza, dove da due anni è presidente Gianni Zonin, ma per dare una mano a una piccola Popolare, la Asolo e Montebelluna, che voleva aprire un’agenzia in città e non trovava nessuno, ma proprio nessuno, che volesse farsene carico.

Consoli non ha ancora quarant’anni, al Credito ha imparato molto, ma il volante non lo tocca mai. Un giorno racconterà: «M’avessero dato una pacca sulle spalle sarei rimasto…». Ma quel gesto non arriverà. Così si convince e le ultime titubanze le vince davanti all’offerta economica. Il 2 gennaio 1989, lunedì, Vincenzo Consoli apre l’agenzia di Vicenza della Popolare di Asolo e Montebelluna. È l’inizio della storia recente di Veneto Banca, che all’epoca aveva venti sportelli, non uno di più. Presidente, era l’avvocato Roberto Tomatis. Direttore generale, Lazzaro Pozzi. Una piccola banca, nota alle cronache solo per la rapina miliardaria del primo luglio 1984. A quel tempo la cittadina trevigiana era il comune con il più alto reddito pro capite d’Europa: merito del distretto della scarpa sportiva e del molto «nero» che allora passava inosservato».

Nove anni dopo essere entrato alla Popolare di Montebelluna, Consoli ne diventa il direttore generale e dunque il padre padrone. La crescita tumultuosa che porta la piccola Banca Popolare di Asolo a Montebelluna a diventare Veneto Banca: l’acquisto della Cassa rurale del Piave e del Livenza, la Banca Italo Romena, la Banca di Bergamo, la Banca del Garda, l’acquisto – per 850 milioni di euro – della Popolare di Intra, e poi la Banca Meridiana in Puglia, la Cassa di risparmio di Fabriano, sino alla Bim, la Banca Intermobiliare. Tanto rapida è stata l’ascesa quando rapidissima ne è stata la caduta: l’ispezione della Bankitalia di fine 2013, la multa da 2,7 milioni di euro, l’infruttuoso incontro di Aquileia tra Consoli e Gianni Zonin, ancora dominus nelle rispettive popolari, il blitz della Guardia di finanza del martedì grasso dell’anno scorso. Nel mezzo, l’approvazione del decreto Renzi sulle banche popolari. Ascesa e caduta di una banca.